Marzo 14, 2025

Mimmo Leonetti/ Ernesto d’Ippolito doveri e trasgressioni

La smilza, ma assai interessante, pub-lblicazione di Mimmo Leonetti è una sorta dibesortazione al lettore di ispirarsi, di ispirare la sua vita e la sua opera, ad una “saggezza”, sebvogliamo datata, assai più presente nei memo rialisti dell’800, assai trascurata di contro nella veloce, disordinata, confusa, realtà contemporanea (sulla quale pesa, come un macigno, la malinconica condanna di Cioran: “Si invoca sempre meno il progresso, e sempre più il cambiamento, e quel che si adduce per illustrarne i vantaggi sono soltanto i sintomi molteplici di una catastrofe senza uguali)”.

Non vorrei essere frainteso. Questa ripresa di saggistica esemplare – nella quale, io credo, si inscrive Leonetti – a me pare da condividersi ed apprezzarsi, di più proprio per questo duplice connotato: per essere, la appena lodatabpubblicistica, minoritaria; per essere, la societàvcircostante, così poco attenta all’esempio del passato, all’insegnamento della Tradizione.

Leonetti addita subito al lettore gli esempi, che gli paiono illuminanti, di Socrate e di Eufileto (il marito tradito, “vendicatore” del proprio onore, processato 2.500 anni fa ad Atene, la cui difesa fu scritta da Lisia, probabilmente il più grande penalista di tutti i tempi).

Mi sia tosto consentita una divagazione, forse meglio avvertibile come integrazione degli ideali designati, disegnati, da Leonetti. Proprio per il carattere didascalico della indicazione dell’Autore, avvicinerei alla figura, insieme storica e mitica, di Socrate, prima e più che il “tradito-vindice” Eufileto, altra figura, quella altrettanto esemplare e mitizzata, di Antigone.- Come è noto, Socrate, condannato da una legge, ed in un processo, ingiusto, invitato dagli affettuosi discepoli a fuggire, a sfuggire la morte, così ingiustamente comminatagli, si rifiuta, ribadisce il proprio rispetto alle leggi (a tutte, anche a quelle ingiuste), ad esse nobilmente sacrificandosi.

Antigone rifiuta di obbedire alla legge, promulgata dalle autorità di Atene, che vieta di dare sepoltura al corpo di suo fratello, considerato traditore e ribelle allo Stato. Antigone trasgredisce quel decreto, provocando, così, la sua stessa morte, in nome delle “leggi non scritte degli Dei”, ossia dei comandamenti morali assoluti, che nessuna legge positiva può violare, senza rendersi moralmente illegittima ed ingiusta.

Come si pone, il cittadino probo, di fronte a tale, almeno apparente, contrasto? Sceglieràbl’obbedienza acritica alle leggi, pur se e quando ingiuste, ovvero si sentirà onerato di saggiarne prima il tasso etico?

Ancora. C’è, tra Socrate ed Antigone, antitesi di morali, contrapposizione di ideologie?

Meditiamo. Socrate decide di obbedire aleggi ingiuste, perché lo Stato e la società non si dissolvano nella anarchia. Antigone non vìola superficialmente una legge, ma seleziona tra leggi, tra più leggi, scegliendo quella, tra queste, che fosse moralmente assistita, nessuna importanza assegnando al fatto che questa fosse tra le “leggi non scritte degli Dei”. E, soprattutto, Socrate ed Antigone, lucidamente, stoicamente,vsacrificano la propria vita all’alta scelta morale, che adottano. Pagano, all’impegnativa scelta adottata, il più alto prezzo umano, la vita.

Il cittadino eticamente motivato non può ignorare né la “sindrome di Socrate”, né “la sindrome di Antigone”.

Deve, fin quando può, e soprattutto con il proprio sacrificio, rispettare, col Magistrato civile, le leggi e le sentenze, cui quel Magistrato civile commette le “regole” della convivenza.- Quando, invece, le leggi compromettono le istanze etiche, che dovrebbero ispirarle, e la loro applicazione comporta ingiuste sofferenze per innocenti (le leggi razziali di Norimberga; quelle Sovietiche contro gli ebrei e i dissidenti, ecc.), il cittadino onesto e coerente si pone idealmente a fianco di Antigone, ne ripete l’eroica protesta, affrontando sereno i rischi della sua scelta, fino alla morte.

Non è un caso che Rudyard Klipling abbia detto che nessuna norma giuridica può fare, di un individuo inconsapevole di “quei” doveri – tra Socrate ed Antigone –, un uomo. Discorso, forse più lungo, e soprattutto articolato, variamente modulato, potremmo dedicare ad Eufileto. Sùbito condividendone la posizione apicale, nella affermazione e difesa della legalità, che Leonetti gli assegna nella sua introduzione.

Ma, esaminandone in prosieguo le differenti valutazioni, che spettano all’“interesse”,da cui Eufileto è mosso, alla fondamentale mediazione di Lisia, il difensore, le assai diverse conclusioni delle scelte operate dai protagonisti degli esempi cennati.

Effettivamente Eufileto conclude la sua appassionata ed appassionante autodifesa, non invocando per sé mitezze, comprensione ed indulgenza, ma ergendosi ad esecutore della volontà della legge (che il drudo Eratostene, ganzo immorale della moglie di Eufileto, aveva ripetutamente, arrogantemente, violato).

Intanto l’accorgimento oratorio, la splendida “mossa” defensionale, la “trovata” brillante, appartiene al grandissimo Lisia, il quale ne usa, nella, per la, consapevolezza della bontà dell’argomento usato.

Ma, e soprattutto, la “legge”, che Eufileto invoca ed addita come sua ispiratrice, di cui egli si vanterà d’essere stato fedele, obbediente esecutore, non gli costerà la vita, gliela salverà.

Torniamo a Leonetti. Che sembra averfatto propria la matura diagnosi dello psicanalista svedese Erik Erikson: “Ogni uomo adulto, che abbia raggiunto il successo nella vita, ad un certo punto sente il bisogno naturale di arricchirla con qualcosa di più, che non sia l’esclusivo interesse personale, familiare o di carriera. Egli sente la necessità di diventare un sostegno per la propria comunità, che lo porti ad essere riferimento ed esempio per gli altri.

Evitare l’estrinsecazione di questo bisogno di ‘fecondità’ produce una stasi ideativa, e quindi conduce ad una vecchiaia satura di un corrosivo sentimento di frustrazione”. Il nostro Corrado Alvaro si esprimeva così: “La prima impressione che prova l’uomo, quando termina la giovinezza, è che diventa utile agli altri”.

Mostrano di condividere Leo Brunet ed Helder Camara. “Quando tendi alle stelle, puoi anche non raggiungerle, ma certamente non resti con un pugno di fango”, scrive il primo. “Se unuomo sogna da solo, il sogno rimane un sogno.

Se molti uomini sognano la stessa cosa, il sogno diventa realtà”, il secondo.

Leonetti sembra condividere la diagnosi di Gabriel Marcel (“essere uomo vuol dire avere un’utopia”); di Salvatore Mongiardo (“l’utopia, anche se non è destinata a realizzarsi, è un faro che indica la strada”) di Enzo Bettiza (“i grandiutopisti, da Platone a Tommaso Moro, a Cam-anella, sono Maestri della speranza forzata”).

Leonetti, in buona sostanza e conclusivamente, avverte il rapporto inscindibile tra passato e futuro, di cui il presente è segmento indispensabile e quanto mai fugace. Proprio perquesto più tenuto a valorizzare tutta (ma solo)

la Tradizione del dovere e del sapere.

Che sia (che possa diventare) un impegno

di umanesimo nuovo?

Ernesto d’Ippolito

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