Fin da ragazzo sono stato affascinato e sconcertato dalle storie di falsari. Già all’età di quindici anni avevo letto suSelearte del grande Ragghianti un articolo splendido sulla vita e le avventure di Han van Meegeren, il leggendariofalsario di Vermeer. Con la sua maestrìa era riuscito a ingannare i massimi esperti di pittura olandese del XVII secolo. Un suo «Vermeer» fu addirittura acquistato, nel 1938, mio anno di nascita, dall’allora direttore del museo Boijmans-Van Beuningen di Rotterdam.
Nella mia memoria è rimasta a lungo impressa anche la notizia riguardo quella celebre testa in terracotta pervenuta al Metropolitan Museum of Art di New York, attribuita a Verrocchio, che in seguito a una accidentale rottura aveva finito per rivelare al suo interno una copia del Times.
Da oltre 50 anni ho sempre difeso l’autenticità della mia opera. Nonostante centinaia di autentiche notarili richieste da mercanti e galleristi, ho sempre tenuto a personalizzare ogni opera anche con un mio codice d’archivio in grado difar fronte a qualsiasi richiesta di identificazione. Data, tecnica, supporto e titolo, in qualsiasi momento potevano essere da me verificati dietro semplice riscontro di un numero cifrato. Precauzioni che non sempre sono bastate ascoraggiare tentativi di contraffazione, soprattutto quando si passa da uno standard di produzione relativamente contenuto e governabile com’è l’opera unica alle tirature astampa di opere seriali. Mentre posso ritenermirelativamente tranquillo per i circa tremila quadri da me dipinti, non posso conservare la stessa tranquillità per i trentamila miei fogli di grafica distribuiti, in oltrequarant’anni, tra la Vetta d’Italia e Capo Passero.
Sono d’accordo con De Liberis che l’originalità della proposta DNA-Artfirm di Gilberto Di Benedetto, per uncodice genetico a totale garanzia di autenticità dell’opera d’arte, potrà fugare d’ora in poi il più sofisticato tentativo difalsificazione.
Finalmente un mezzo tecnico non superabile a disposizione della forma più alta di intuizione quale è l’arte.Tra le attività umane, una alchimia – come già sostenevaduemilacinquecento anni fa Platone nel Timeo -, in grado dipurificare la propria natura per ricondurla all’Essenza Prima.
Ma la risolutiva proposta dell’artista Hypnos, per quantoderivata da esigenze ben concrete, implica e stimola considerazioni che possono anche spingersi lontano, all’interno dei recessi più intimi della creatività. Da sempre l’artista ha cercato di varcare quel diaframma virtuale che lo separa dall’opera conclusa, in certo senso aggredendola con la propria fisicità: un modo per incorporarsi dentro e vivificarla ai limiti del possibile. Chi ha sentito suonare Glenn Gould ha dovuto accorgersi che ogni sua esecuzione èaccompagnata da mugolii come di animale ferito o dimonaco tibetano in preghiera – un modo per accompagnare i suoni, o meglio, diventare lui stesso suono. In ugual misura, la mia fortuna da ragazzo, studente a Genova, mi ha permesso di essere spettatore, con sole 400 lire, di un anziano Igor Stravinskij direttore al Teatro Carlo Felice. Ho visto il suo corpo trasformarsi nel fremito della sua musica,del tutto smaterializzato dai suoni provocati, come impersonificasse la loro esplosione.
Un parossismo espressivo neppure ignoto alla pittura, che sempre un altro grande anziano, Tiziano, riversa sulle tele della maturità: l’impiego delle mani direttamente nell’impasto del colore sulla tela, quasi che il pennello loostacoli nel proprio imperioso affermarsi dentro la pittura.Libertà che assurgerà quasi a metodo in Rembrandt, ma in qualche misura già anticipata in opere di artisti non sospettabili: una vera sorpresa per me scorgere in un dipinto di Albrecht Altdorfer chiare impronte di pollici, più cheevidenti anche a qualsiasi ispettore di polizia.
Con gli attuali primati tecnologici che cosa significherebbe per noi oggi possedere il DNA di Bach o di Van Gogh? Tutto su di loro e il loro genio è stato detto e scritto. Ma chissà chepotendoci intromettere all’interno della loro doppia elica non ci si prospetterebbe oggi qualcosa della loro essenza creativa, quasi uno specchio da essi desiderato all’interno di ogni creazione? Benché azzardato auspicare per qualsivoglia altro manufatto lo stesso interesse scientifico di cui è stata oggetto la Sacra Sindone di Torino, perché non immaginare uno studio altrettanto approfondito su una delle molte opered’arte che rappresentano l’espressione assoluta dellaBellezza e non della sofferenza?
L’artista può attraverso l’arte esprimere un intero dinamico di sistemi energetici inseparabili – così come l’universo si configura attraverso l’ologramma.
Un «transfert» possibile per mezzo dell’intuito, le cuicaratteristiche non sono surrogabili alle altre attività della mente. Nell’istante in cui l’intuito si attiva, la mente razionale tace, ed è proprio e soltanto attraverso questomomento che l’artista mostra una realtà trasfigurata da una logica universale: in questo senso l’esperienza umana si fa espressione dell’essere «divino».
Attraverso l’unicità dell’atto artistico – suoni e colori -,l’operatore estetico rende percepibile al fruitore la vibrazione universale. Ormai sappiamo che il suono non èpercettibile soltanto attraverso l’orecchio, così come il colorenon lo è soltanto attraverso l’occhio, bensì in ogni cellula del nostro corpo. Una trasmissione energetica, quella dell’arte, che stimola per biorisonanza cerebro-organica l’attività cellulare del ricevente: un ricongiungimento naturale del sé organico con il sé divino.
Il DNA genera un «suono», una vibrazione che è statachiamata dai suoi ricercatori “Il suono della vita”. Una musica prodotta da vibrazioni, da movimenti dello stesso DNA, che una ricerca italoamericana è riuscita a registrare e far ascoltare. Esperimenti del team guidato dal fisico James Gimzewski dell’università di Los Angeles in California, e daldocente di biologia molecolare dell’Università di Bologna Carlo Ventura.
E’ forse attraverso questo “Tempio dello Spirito” quale è ilDNA, che l’artista Gilberto Di Benedetto ha intuito proseguire l’opera d’arte per aspetti soltantoapparentemente distanti, seppure intimamente connessi.L’uno, come completamento di un «suono» che non ha fine,una musica che si proietta in tutti livelli di conoscenza ed esistenza: un suono interiore percettibile soltanto mediantela “subliminale sensibilità di un’altra consapevolezza”.L’altro, come documento allegante sostanze biologiche e proprio DNA, che un artista consapevole non può che effettuare – sebbene a fronte di una prassi così «corporea».Indispensabile a proteggere da qualsiasi contraffazionel’oggetto arte e suoi molteplici operatori.
La “rivoluzione copernicana” del Dna-Artfirm ideato dall’artista Gilberto Di Benedetto, supportata dal progetto in atto di una apposita banca dati con firme biologiche degli artisti, costituirà una garanzia inoppugnabile alla tutela della proprietà intellettuale.
Giovanni Battista De Andreis